Già Lefevre nel 1970 ha parlato di diritto alla città come “forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare”.
La sociologia contemporanea amplia e semplifica il concetto, definendo metaforicamente la città come “scatola dei diritti”. Ed in questa scatola, ha spiegato bene la professoressa Letizia Carrera nel convegno “Italia Giusta secondo la Costituzione” dello scorso 18 gennaio, rientrano diritti “non normati” che, si racchiudono in due più piccoli “contenitori”: quello del diritto a vivere la città e quello del diritto a decidere della propria città.

Se parliamo del diritto a vivere la città, parliamo di sicurezza, di mobilità, di attraversamento, di bellezza, nell’intesa che siano tutti principi osmotici all’interno del territorio strutturato, pensato perché si abbassi la soglia della soggettività in favore di quella dell’oggettività. In questo, compito della politica è analizzare bisogni e desideri dei cittadini, pensando ad una progettazione della città calata sui bisogni della fascia civile più vulnerabile: se i vulnerabili attraversano o vivono uno spazio, tutti gli altri potranno attraversarlo e viverlo.
Attraversarlo e viverlo significa anche garantire una serie di diritti spesso “invisibili” e “difficili”, in qualche modo tra loro collegati: diritto al reddito per esempio, che è qualcosa di diverso dal “diritto al lavoro”; ci sono cittadini che svolgono più lavori che, insieme, “non fanno reddito”; diritto alla cultura come contrasto alla povertà educativa, che non è solo cosa legata all’età dell’istruzione: a volte chi non lavora sulla e con la cultura, si distacca dalla formazione e questo vuol dire generare incompetenza politica, perché la mancanza di cultura (che non è “insieme di nozioni”) genera una semi-cultura che non può generare pensiero critico. Diventa così fondamentale l’aspetto dell’apprendimento continuo, in spazi che siano appositamente pensati e strutturati nelle dimensioni del luogo e del tempo, luoghi fisici e non virtuali, per abituare il cittadino ad argomentare, a “ricostruire la catena del percorso” che ci porta ad una considerazione espressa. E cos’è questo, se non un altro diritto, quello alla socialità, che a sua volta richiama altri diritti, per esempio quello alla giustizia sociale? Le opportunità andrebbero svincolate dal reddito e dalle competenze culturali. I teatri, lo svago non sono per tutti ed invece dovrebbero esserlo. L’uguaglianza è un obiettivo che costituisce sfida per ogni amministrazione.
Se il diritto a vivere la città è sfida, lo è ancora di più quello a decidere della propria città: perché prevede una partecipazione, la creazione di occasioni strutturate e continue per imparare a “decidere insieme”, a fare i conti con degli altri resi competenti, che sanno di cosa hanno bisogno e quel bisogno sanno esprimerlo.
Il Diritto alla città, nella sua totalità, ha una potenzialità sociale, politica ed individuale elevatissima, il cui nodo fondamentale è la strutturazione delle iniziative, che non siano solo episodiche ma basate anche su un sistema formativo pensato come “palestra alla partecipazione”, per costruire quella capacità culturale e politica di “confrontarsi con la differenza”.
Sembra utopia, ma forse non lo è. Rivendichiamolo e costruiamolo, il nostro Diritto alla città.
oppure
QUESTO NUMERO E’ OFFERTO DA:

